Decesso per infezione ospedaliera dopo un intervento di protesi all’anca

Decesso per infezione ospedaliera

Decesso per infezione ospedaliera dopo un intervento di protesi all’anca: dopo un intervento chirurgico di protesi all’anca sinistra, Manuela ha contratto un’infezione ospedaliera non curata adeguatamente, che ha portato al suo decesso. Scopri le negligenze mediche ed i diritti dei familiari in casi di responsabilità medica.

Introduzione

Le infezioni nosocomiali sono una delle complicanze più temute negli ambienti ospedalieri, soprattutto nei pazienti fragili o sottoposti a interventi invasivi. La scarsa igiene, la mancata profilassi antibiotica ed il ritardo nella diagnosi possono esporre i pazienti a batteri multiresistenti, causando infezioni gravi che risultano molto difficili da sconfiggere ed, in alcuni casi, risultano fatali per il paziente.

È quello che è accaduto a Manuela, una donna di soli 66 anni, che ha perso la vita dopo un intervento di protesi all’anca sinistra a causa di un’infezione post-operatoria trascurata dal personale ospedaliero. Il mancato intervento tempestivo ha permesso alla patologia di aggravarsi, portando a complicanze irreversibili ed, infine, al decesso.

In questo articolo analizziamo il suo caso, evidenziando le negligenze della struttura sanitaria, le gravi omissioni nel trattamento dell’infezione ed i diritti dei familiari delle vittime di malasanità.

Indice

  1. L’infezione contratta dopo l’intervento
  2. Le responsabilità mediche e gli errori nella gestione clinica
  3. Le conseguenze per la paziente e il decesso evitabile
  4. Diritti dei familiari e possibilità di risarcimento
  5. Conclusioni

1. Decesso per infezione ospedaliera contratta dopo l’intervento

Manuela è stata ricoverata il 10 aprile 2018 dopo una caduta in casa, che le ha provocato una frattura all’anca sinistra. Per permettere il recupero della mobilità e ridurre il dolore, i medici hanno deciso di sottoporre la paziente ad un intervento chirurgico per l’impianto di una protesi all’anca, una procedura comunemente utilizzata nei pazienti con fratture del femore.

L’intervento si è svolto senza apparenti complicazioni, ma nei giorni successivi la paziente ha iniziato a manifestare sintomi preoccupanti, tra cui:

  • Dolore intenso e persistente nella zona operata
  • Gonfiore anomalo e arrossamento della pelle
  • Febbre alta e brividi
  • Fuoriuscita di pus dalla ferita chirurgica

Nonostante questi chiari segnali di un’infezione in corso, il personale sanitario si è limitato a somministrare antidolorifici generici senza eseguire esami microbiologici e senza modificare la terapia antibiotica.

Solo diversi giorni dopo, quando il quadro clinico di Manuela si era ormai aggravato, è stato finalmente eseguito un tampone della ferita chirurgica, che ha evidenziato la presenza di Enterococcus faecalis, un batterio noto per la sua resistenza agli antibiotici. A quel punto, tuttavia, l’infezione era già ampiamente diffusa nei tessuti profondi, rendendo inefficace il solo trattamento farmacologico.

Per cercare di contenere l’infezione, i medici hanno deciso di rimuovere la protesi e sostituirla, ma l’intervento è avvenuto troppo tardi. L’infezione era già molto estesa, portando a sepsi ed insufficienza multiorgano, che hanno causato il decesso di Manuela.

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2. Le responsabilità mediche e gli errori nella gestione clinica

Le infezioni ospedaliere come quella contratta da Manuela dopo l’intervento di protesi all’anca sinistra resasi necessaria per una banale caduta in casa, possono essere prevenute attraverso l’applicazione di rigidi protocolli sanitari. Tuttavia, nel suo caso, le indagini medico-legali hanno evidenziato numerose carenze nell’assistenza ricevuta, che hanno contribuito all’aggravamento dell’infezione fino ad uno stato di sepsi irreversibile.

Mancata prevenzione e gestione dell’infezione post-operatoria

La paziente è stata operata senza una corretta protezione antibiotica. Nella scheda anestesiologica era annotata la somministrazione di un antibiotico ad ampio spettro, ma non era specificata la dose esatta e non ci sono prove che sia stato effettivamente somministrato durante l’intervento, come invece previsto dalle linee guida. Inoltre, nel post-operatorio, non è stato eseguito un adeguato monitoraggio dei parametri infiammatori, nonostante l’evidente comparsa di sintomi di infezione precoce, come febbre alta ed aumento dei globuli bianchi.

Già nei giorni successivi all’intervento, Manuela ha sviluppato un quadro clinico allarmante, caratterizzato da febbre persistente, globuli bianchi elevati e ferita chirurgica infetta con secrezioni purulente. Tuttavia, i sanitari non hanno effettuato un semplice tampone per identificare il batterio responsabile ed impostare una terapia antibiotica mirata. L’unico esame colturale eseguito risaliva al 20 aprile, quando l’infezione era ormai avanzata, ed ha confermato la presenza di Enterococcus faecalis, un batterio notoriamente resistente agli antibiotici e molto difficile da debellare.

Ritardo diagnostico e mancata terapia adeguata

Nonostante i segni di un’infezione grave, l’ospedale ha ritardato la somministrazione di antibiotici mirati ed ha continuato per giorni con terapie non adeguate. È stato somministrato prima un antifungino, senza alcuna evidenza di infezione micotica, mentre in seguito è stata somministrata la rifampicina, introdotta senza un’adeguata giustificazione clinica, intanto perché generalmente viene utilizzata in combinazione con altri antibiotici ed in secondo luogo perché l’infezione della paziente era ormai avanzata, e la terapia avrebbe dovuto essere guidata dai risultati di un antibiogramma, piuttosto che da scelte empiriche. La terapia antibiotica, dunque, non è stata efficace, lasciando il batterio libero di proliferare perché nessuno ha pensato di verificare con un semplice tampone quale tipo di microrganismo stesse infettando la paziente.

Un altro aspetto pesantemente censurato dai consulenti tecnici è stata la gestione delle medicazioni e dei controlli post-operatori. Studiando la cartella clinica si è visto che la ferita chirurgica di Manuela ha mostrato segni di infezione nei giorni successivi all’intervento, ma le medicazioni sono state effettuate senza un criterio chiaro e seguendo protocolli precisi​.

Non ci sono indicazioni dettagliate su quando e come furono effettuate le medicazioni, né sulla loro frequenza; non sono stati eseguiti regolari esami microbiologici sulla ferita per valutare se l’infezione stesse peggiorando; non sono stati eseguiti subito dei tamponi microbiologici, il che significa che i medici  hanno trattato la ferita senza avere dati precisi sulla natura dell’infezione e senza poter scegliere una terapia antibiotica mirata.

Carente gestione clinica e shock settico finale

L’errore fondamentale è stato non effettuare subito esami microbiologici per capire quale batterio stesse causando l’infezione e quale antibiotico fosse più efficace per combatterlo. Dopo il secondo intervento per rimuovere la protesi infetta, i medici non hanno eseguito tamponi intraoperatori né altri test approfonditi, e non ci sono tracce di questi esami nella cartella clinica. Senza queste informazioni, non è stato possibile scegliere la cura giusta, permettendo all’infezione di peggiorare fino a causare un grave shock settico.

A peggiorare ulteriormente la situazione, per oltre 24 ore non è stata monitorata la diuresi della paziente, un parametro fondamentale per valutare la progressione della sepsi. Quando i medici si sono accordati del quadro clinico, Manuela era già in una condizione di ipotensione grave, con una proteina C-reattiva alle stelle e una completa assenza di produzione urinaria, segno di un’insufficienza multiorgano ormai irreversibile​.

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3. Le conseguenze per la paziente e il decesso evitabile

Dopo l’intervento di protesi all’anca sinistra dell’11 aprile, Manuela ha iniziato a manifestare sintomi chiari di un’infezione in corso, tra cui febbre elevata, dolore persistente ed un peggioramento generale delle sue condizioni cliniche. Tuttavia, questi segnali sono stati ignorati o sottovalutati dal personale sanitario, ritardando un’adeguata diagnosi ed il trattamento necessario. Il mancato monitoraggio post-operatorio ha permesso all’infezione di diffondersi, trasformandosi in un’infezione profonda della protesi che ha richiesto l’espianto e la sostituzione del dispositivo impiantato​.

L’errore più grave è stato non effettuare subito esami microbiologici per capire quale batterio avesse causato l’infezione e quale antibiotico fosse più efficace per combatterlo. I medici non hanno analizzato i tamponi prelevati durante l’intervento, facendo così perdere tempo prezioso. Questo ha ritardato la diagnosi ed ha impedito di iniziare subito una cura mirata, lasciando che l’infezione peggiorasse.

Dopo l’intervento di revisione, le condizioni di Manuela sono peggiorate rapidamente: la febbre è diventata sempre più alta, i globuli bianchi  hanno raggiunto livelli preoccupanti e la paziente ha sviluppato un quadro di sepsi grave. Nonostante la gravità della situazione, i sanitari non hanno effettuato i necessari esami ematologici di controllo nei tempi adeguati e non hanno sollecitato i risultati degli esami microbiologici. Quando finalmente sono intervenuti, l’infezione era ormai fuori controllo e Manuela è entrata in uno stato di shock settico​.

Il 2 maggio, i medici si resero conto che il referto dell’emocromo previsto per il 27 aprile non era disponibile. Tuttavia, invece di eseguire immediatamente un nuovo prelievo, hanno inspiegabilmente rimandato il controllo al giorno successivo. Quando l’esame è stato infine effettuato, ha mostrato un valore drammatico dei globuli bianchi (53.000), segno di un’infezione ormai irreversibile. A questo punto, Manuela era già in uno stato di shock settico avanzato, caratterizzato da pressione sanguigna molto bassa, un’infiammazione grave nel corpo e assenza di produzione di urina per molte ore. Nonostante la situazione critica, i medici non hanno controllato adeguatamente le sue funzioni renali per più di 24 ore, peggiorando ulteriormente le sue condizioni.

A nulla sono valsi i tentativi di stabilizzarla. Il  quadro clinico di Manuela si è deteriorato in poche ore, culminando nel decesso la sera del 4 maggio. La sua morte è stata certificata come conseguenza diretta dell’infezione post-operatoria e della sua evoluzione in shock settico.

Questa brutta vicenda di malasanità dimostra quanto sia essenziale rispettare i rigidi protocolli di sterilizzazione e monitoraggio nelle fasi post-operatorie. La negligenza e la superficialità dimostrate dai sanitari in questo caso hanno portato ad un peggioramento progressivo ed irreversibile della sua condizione.


4. Diritti dei familiari e possibilità di risarcimento

Quando un paziente subisce gravi danni o perde la vita a causa di negligenza medica, i suoi familiari hanno il diritto di chiedere giustizia e ottenere un risarcimento per le sofferenze e le perdite subite. Nel caso di Manuela, deceduta in seguito ad un’infezione nosocomiale non trattata adeguatamente, i medici legali nominati dal tribunale hanno riconosciuto la responsabilità della struttura sanitaria, evidenziando gravi omissioni nella gestione clinica post-operatoria.

A livello giuridico, i parenti possono ottenere un risarcimento sia “iure hereditatis” – ovvero per il danno subito dalla vittima e trasmissibile agli eredi – sia “iure proprio”, per le ripercussioni dirette sulla loro vita. Nel caso specifico, il tribunale ha riconosciuto ai familiari di Manuela diverse voci di danno, tra cui:

  • Danno biologico terminale, cioè la sofferenza fisica e psicologica vissuta dalla paziente nel periodo che ha preceduto il decesso. La progressione dell’infezione e il mancato intervento tempestivo hanno contribuito a peggiorare un quadro clinico di grave sofferenza.
  • Danno catastrofale, che si riferisce alla consapevolezza della vittima della propria condizione e della fine imminente. Nel caso di Manuela, il peggioramento progressivo e l’aggravarsi della sintomatologia infettiva hanno determinato un prolungato stato di ansia e angoscia.
  • Danno parentale, cioè il dolore e la sofferenza emotiva provati dai congiunti per la perdita della loro cara. I giudici hanno valutato il legame affettivo tra la vittima ed i familiari, il tempo trascorso insieme e l’impatto emotivo della scomparsa.
  • Danno patrimoniale, per le spese mediche sostenute prima del decesso, incluse cure domiciliari, visite specialistiche, trattamenti farmacologici e costi funerari.

Il riconoscimento di questi danni ha permesso ai familiari di ottenere un risarcimento significativo, a fronte di una gestione sanitaria che ha violato gli standard di diligenza e prudenza richiesti.

Questo caso dimostra l’importanza di intraprendere un’azione legale con il supporto di specialisti esperti in responsabilità medica, per garantire ai familiari delle vittime il giusto riconoscimento del danno subito e un adeguato risarcimento. Chiamaci per una consulenza gratuita al numero 800.100.222.

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5. Conclusione

Le malattie nosocomiali possono avere conseguenze gravissime, soprattutto quando non vengono gestite tempestivamente. Se hai perso un familiare a causa di un errore medico o di una negligenza sanitaria, puoi far valere i tuoi diritti e ottenere un risarcimento.

Per sapere se il tuo caso può dar luogo a una richiesta di risarcimento, parlane con i nostri esperti:

  • Chiamaci al Numero Verde 800.100.222 per una prima valutazione gratuita del tuo caso.
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  • Massima riservatezza garantita: ogni informazione sarà trattata con discrezione e nel pieno rispetto della privacy.

Non restare in silenzio di fronte a un errore medico. Aiuto Malasanità è al tuo fianco per tutelare i tuoi diritti e ottenere il risarcimento che meriti.

Link Utili

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Author

  • Prof. Dott. De Luca Paolo

    Già Docente Scuola di Specializzazione in Medicina Legale e delle Assicurazioni Università “La Sapienza”

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Prof. Dott. De Luca Paolo

Già Docente Scuola di Specializzazione in Medicina Legale e delle Assicurazioni Università “La Sapienza”

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    Già Docente Scuola di Specializzazione in Medicina Legale e delle Assicurazioni Università “La Sapienza”

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